Il campo base Everest è tornato prepotentemente nei miei ricordi di viaggio, complice il film Everest che racconta la disastrosa spedizione sulla montagna più alta del mondo avvenuta nel 1996 e descritta da uno dei pochi sopravvissuti, Jon Krakauer, nell’avvincente saggio “Aria Sottile”.
Due sono di fatto i campo base Everest, corrispondenti ai due principali percorsi di accesso e ascesa alla montagna: quello in Nepal, lungo la via per il Colle Sud e la cresta sud-est, che fu il percorso scelto dai primi scalatori dell’Everest, Hillary e Norgay, il 28 maggio 1953, e quello in Tibet, lungo la via per il Colle Nord e la cresta nord-est, considerata il più arduo perché prevede un maggiore numero di campi intermedi nella cosiddetta zona della morte sopra i 7800–8000 metri.
Io e Cristian abbiamo raggiunto il campo base Everest sul versante tibetano nel corso del nostro avventuroso viaggio di nozze che ci ha portato da Lhasa a Kathmandu nell’autunno del 2011, il periodo migliore per visitare l’altopiano himalayano perché il clima non è ancora eccessivamente rigido e il cielo è tendenzialmente molto terso, consentendo condizioni ottimali di visibilità delle vette.
Ricordo l’emozione della partenza nel cuore della notte dal piccolo centro abitato di Shegar (conosciuto anche come New Tingri) lungo la Friendship Highway e le interminabili due ore di tragitto a bordo di un fuoristrada che affrontò quasi a passo d’uomo gli ultimi cento chilometri di distanza lungo unai strada sterrata. Mi sembra quasi di rivedere davanti a me il desolante paesaggio lunare che a tratti si scorgeva dai finestrini dell’auto e che improvvisamente iniziò ad essere costellato da grossi ammassi di pietre e dalle onnipresenti bandiere di preghiera tibetane, indizio che la meta era vicina. E poi ecco finalmente la vallata di Rongbuk e in fondo il campo base: un’immensa distesa di rocce e ghiaia sovrastata dalla vetta più alta al mondo, l’Everest, che ci apparve gradualmente rischiarato dalle prime luci dell’alba su un cielo ancora stellato.
Provati dalla mancanza di ossigeno, che a oltre 5000 metri di altitudine ci rendeva difficile fare anche solo pochi passi, ma anche determinati a non perderci nulla del momento che stavamo vivendo, approfittammo dell’accoglienza dei monaci e delle monache del monastero di Rongbuk per visitare il santuario buddista più alto del pianeta e goderci al riparo di una rudimentale cucina alimentata con sterco di yak una meravigliosa alba sull’Everest.
Colmammo gli ultimi 8 chilometri della vallata di Rongbuk e il dislivello di 200 metri che ci distanziavano ancora dal vero e proprio campo base Everest, contrassegnato da un cartello che a 5200 metri di altitudine segna il limite massimo di accesso consentito ai non scalatori, con un ultimo breve spostamento in auto e una ripida salita a piedi e, ormai quasi sfiniti, giunti al cartello, ci abbracciammo orgogliosi e anche un po’ increduli di aver raggiunto la porta di accesso al tetto del mondo.
Raggiungere il campo base Everest, per quanto con l’aiuto di un fuoristrada, non è infatti impresa facile: oltre che con gli effetti dell’altitudine, che spesso sfociano in nausea e forti emicranie (in ogni caso gestibili con un progressivo adeguamento alle quote e limitando i propri movimenti) occorre fare i conti con la rigida burocrazia locale che prevede che gli stranieri possano visitare il Tibet e in particolare il campo base Everest solo se accompagnati da una guida autorizzata e se muniti di un permesso di entrata per il Tibet, il cosiddetto TTB, e del permesso speciale PSB, richiedibile solo da referenti di agenzie autorizzate in loco.
[…] da tempo assediata da un proliferare di lucrose spedizioni commerciali. A me è bastato arrivare al campo base per capire quanto la natura a simili altitudini possa essere affascinante ma anche […]